27 ottobre 2014

XXIV.






- Odio gli assilli e la fretta, sono inevitabilmente attratto dalle cose fatte bene e con calma.

Dalla raccolta "Le apocalissi del malcontento" di Emiliano E. Zammitti

04 aprile 2014

Simenon e le sue meditabonde pipe

Il mondo del tabacco, senza far nessun elogio dello stesso, chiama a sé molti artisti, specie gli scrittori, i quali durante la stesura delle loro opere tengono quasi sempre accanto una pipa, un sigaro o una sigaretta, è una sorta di zona del Mito. Ma quando addirittura a uno scrittore divenuto un mito gli si dedica un prestigioso tabacco che prende il nome di Maigret Cut’s, non è cosa da poco.

Sono in molti gli scrittori come Tolkien, Miller, Twain, Austin, Sartre, Faulkner, Doyle, Grass, Pennac, Pascoli, Ungaretti, Saba, Flaiano e tanti altri, immortalati in dipinti, dagherrotipi, foto, con di tra le dita o fra le labbra una pipa. Oggetto che invita alla meditazione, pieno di carattere, bello da esibire e che evoca inevitabilmente atmosfere senza tempo.

Ma lo scrittore che incarna, o se vogliamo rappresenta più di chiunque altro, senza tener conto dei personaggi di romanzo, il mondo della pipa, con in più l’onore di avere una raffinata miscela di tabacco a lui dedicata, è senza ombra di dubbio Georges Simenon. Non è possibile scindere Simenon dalla pipa, un connubio visivamente conosciuto ai più. Questi, prediligeva quella di radica e dritta, che definiva una parte di lui stesso e che fumava in ogni dove e da sempre. La prima l’acquistò a tredici anni e d’allora pare non abbia più smesso, difatti è quasi impossibile trovare una foto in cui appaia scevro del suo caro oggetto: carismatico, da compagnia, perfettamente in opposizione alla sigaretta da consumare velocemente e gettare. Per Simenon la pipa era una cosa seria, da amare, arrivò a collezionarne circa trecento, la maggior parte delle quali del tipo con le caratteristiche sopraddette. Invece il tabacco che privilegiò fu l’inglese Dunhill, orientandosi definitivamente nel periodo di massimo successo, quando non aveva economicamente da che preoccuparsi, sul prestigioso Royal Yacht Club conosciuto ora come Royal Yacht Mixture.

Inoltre anche l’arte ha elevato a simbolo espressivo la pipa, suscitatrice d’atmosfera, associando tale oggetto a personalità dal carattere complesso. In pittura gli esempi sono innumerevoli, il più famoso è quello di Magritte: una semplice ed elegante semicurva pipa che non si può fumare, ma si può solo immaginare come sarebbe fumarla, creando una realtà altra, surrealista e paradossale tra forma e definizione, illusione e inganno.

Oltre tutto se volessimo fare un quadro sommario delle caratteristiche di chi fuma la pipa, non sarebbe un azzardo parlare di spiccata inclinazione alla riflessione, alla fantasia, alla meditazione, alla creatività, con una predisposizione a sprofondare in corti sprazzi di tempo avvolti in bianche nuvole di fumo.

02 aprile 2014

XXIII.






- Mi diverte non poco dare un volto alle numerose sollecitazioni che mi sopraggiungono dalla dimensione dell'Oltre.

Dalla raccolta "Le apocalissi del malcontento" di Emiliano E. Zammitti

26 marzo 2014

XXII.






- Divulghiamo il bello, l'unico mero oltraggio contro il vuoto, il più indicato atto rivoluzionario con cui imbrattare il muso dell'ignoranza.

Dalla raccolta "Le apocalissi del malcontento" di Emiliano E. Zammitti

19 gennaio 2014

Edgar Allan Poe e il furente «mai più!»


Nel 1845, "Mister Raven", appellativo che verrà affibbiato a Poe dopo il successo ottenuto con la sua opera poetica più celebre: Il Corvo, la sua vita cambierà, ma non per molto, dato che l'abisso della disperazione non gli darà tregua neppure in quei rari momenti di felicità. Con il componimento in versi de Il Corvo, Poe intende creare qualcosa di nuovo, palesando la sua bravura, dando prova di come un'opera poetica possa trascendere la stessa ispirazione dell'autore, oltre il semplice poetare, mettendo in campo in modo esplosivo effetti poetici basati su un persuasivo leitmotiv, passando per una sperimentazione ritmica e fonica estremizzati, ma calibrati rispetto alla struttura, calcolati secondo una visione mirata per dar luogo nell'animo del lettore emozioni a cui non è possibile sfuggire. Elizabeth Barret nel 1846 scriveva a Poe: «Il vostro Corvo ha prodotto una sensazione orrifica qui in Inghilterra. Alcuni miei amici ne sono atterriti, altri sono soggiogati dal fascino della sua musica. So di persone rimaste stregate dal Nevermore...» Per Poe creare una combinatoria di ingredienti dove unire la musica al significato diviene lo scopo precipuo. La parola deve emozionare, allarmare e rivelare un'atmosfera d'animo e di luogo. Un'atmosfera architettata a dovere nella quale il protagonista soffre per la sua amata, e dove un Corvo, un Corvo reale - dai sacrali giorni - gli fa visita per annunciare i segreti custoditi nella morte, e rispondere a delle domande riferite a Lenore, la donna cristallizzata nella memoria dell'amato, che non sarà «mai più».

Illustrazione di Edouard Manet per l'edizione francese de "Il Corvo" pubblicata nel 1875.

Il luogo in cui si svolge la rivelazione tra l'uomo dolente per la perdita della sua amata e il Corvo, è una stanza, una semplice stanza, che Poe trasforma in una dimensione dove tutto è possibile, quasi un luogo sacro, ben arredato, in cui ogni cosa appare ovattata, sospesa, divorata da quel «mai più» furente. Quel «mai più» che peserà come un annuncio impossibile da contestare. «...stabilii anzitutto nella mente il climax, o domanda - quella domanda alla quale per l'ultima volta sarebbe stato ripetuto Nevermore - quella domanda in risposta alla quale questa parola Nevermore avrebbe implicato il massimo immaginabile di dolore e disperazione». Edgar Poe, dunque, attraverso un uso creativo della parola e la creazione consapevole di uno stil nuovo, elevato all'immaginifico, e uno sviluppo della costruzione ritmica implacabile, decide di attanagliare il lettore, assalirlo di emozioni, commuoverlo, smarrirlo, trascinarlo in un vortice ritmico ipnotico, un imperativo strategico-artistico-logico, quasi matematico, seguito da un calcolo elevato a scopo precipuo per quello che sarà sin da subito il suo capolavoro immortale, caposaldo di una rivoluzione poetica senza pari in cui elegge la grandezza del suo genio.


17 gennaio 2014

Il capitale umano. Un Virzì a tinte noir


Può una vita umana avere un prezzo, essere valutata, monetizzata? Purtroppo è possibile, amaramente possibile. Aspetto, questo, che ci racconta Virzì nel suo ultimo film Il capitale umano. Titolo che proviene da un'espressione utilizzata nel mondo delle assicurazioni e che indica il prezzo d'indennità in caso di decesso di un assicurato. Questione a cui il regista, forte di una solida sceneggiatura ispirata a un romanzo americano, arriva pian piano, colpo di scena dopo l'altro, passando per conflitti umani, ricatti, amori, disamori, attrazioni, adulazioni. In una trama che s'incastra amorevolmente, suddivisa in capitoli e salti temporali che ricordano Tarantino e Tornatore. Un film che ho amato tanto, pur ammettendo di non essere un grande appassionato del regista, che mi ha stupito per un approccio insolito, perché il film è insolito sin dalla struttura, tanto che par voglia comunicare un cambio di rotta del regista, quanto meno riguardo l'aspetto visivo, creando atmosfere e suggestioni mutuati dal noir.

Durante tutto il film si respira un'atmosfera elettrica, fra luminosità e uggiosità, avvertendo una sensazione di drammaticità pronta a esplodere. È gli elementi compositivi del film, sembrano affermare questo, a cominciare dalla regia, che definirei corposa, specie se paragonata alle precedenti di Virzì, e che si fa notare sin dalle prime inquadrature, una in particolar modo, dall'alto, e non per ultimo dalla forza espressiva dei protagonisti, Valeria Bruni Tedeschi su tutti; una ricca affascinante, d'indole pacata, ma capace di scatti d'ira improvvisi. Un'attrice di rara bravura degna di questo nome, totalmente calata nel ruolo (in fondo proviene da una famiglia agiata) che conduce per mano lo spettatore nell'intrigo della storia, come se fosse un contrappunto mirato, raccontandoci i suoi sogni e le sue sofferenze, le sue attrazioni per la cultura teatrale e per un autore di teatro: Luigi Lo Cascio, che si riconferma, a dispetto di un ruolo poco esteso, ma decisivo per la stessa caratterizzazione della Bruni Tedeschi. Con questo film Virzì fa un'escursione nel noir, un noir famigliare, proponendo un affresco contemporaneo di un'Italia corrotta, di signori del denaro che investono capitali vertiginosi sulla rovina di una nazione. Ecco quindi i protagonisti, diversi tra loro, forse non tanto, ficcarsi in questo strappo sociale. Si va dal ricco esperto in finanza Fabrizio Gifuni, al villano tronfio con manie di grandezza, artefice del suo stesso disastro personale, un uomo superficiale che se ne frega della donna che lo ama; lei, Valeria Golino, gioiosa per una novità che le cambierà la vita, mentre lui, un bravissimo seppur sopra le righe, Fabrizio Bentivoglio, con la mente perennemente smarrita, accecata da un abbaglio, cannibalizzata da un ambiente che non fa per lui.


GRAZIE PER AVER VISITATO Katàbasi

"Come altri Dio, io cerco gemendo me" (G. B.)

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